Andrea Cammilleri |
martedì 30 ottobre 2018
La Festa dei Morti in Sicilia di Andrea Cammilleri
Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un
cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano
in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e
di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati,
sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri
morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una
carezza, si calavano a pigliare il cesto.
Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca.
Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e
perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a
nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa.
Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo.
I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi.
Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie
preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi
scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e
dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele,
“mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù,
carcagnette.
Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un
bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un
passo di danza.
A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine,
andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i
morti.
Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per
incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono
quest’anno i morti?».
Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età
precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla
tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio
di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano
fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.
Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e
lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li
portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo
spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato.
Avevamo
perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo
che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e
“stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli
scienziati.
Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico.
E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione
sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire
ha disimparato a servire.
(da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri)
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