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Palio dei Normanni, 12/13/14 agosto

martedì 7 gennaio 2014

L'ultimo testimone della memoria di Piazza Armerina


Lunedì 6 gennaio, il nostro Pino Testa ha compiuto il suo 87 compleanno.
A Pino Testa va il più sincero augurio dal governo del quartiere.
Con l’occasione riportiamo l’intervista che Pierangela Cannone giornalista del giornale La Sicilia ha pubblicato questo sabato nella pagina Cultura.
L'ultimo testimone della memoria di Piazza Armerina

L'INTERVISTA
Il poeta Pino Testa compone i suoi versi nella «parrada a v'ddanesca», il galloitalico della gente umile, tramandato dagli avi.
di Pierangela Cannone
Palazzo di Città

Tutto sembra lì, fermo. Vigile al primo viso straniero. Il caos di una mattina qualunque, con gli stessi ritrovi che anche tanti anni fa popolavano il centro di Piazza Armerina.
Perché, in fin dei conti, sono sempre loro, le pietre, le vere custodi della storia di un territorio: la bottega; il tabaccaio; il bar; il comune e il centro culturale.
Una ragazza aspetta ansiosa l'arrivo di una signora, forse la madre. Un uomo, incuriosito, si affaccia dal belvedere di piazza Garibaldi con aria di scoperta, alla ricerca della novità. Al di là del centro storico la gente si insegue in un vortice frettoloso.
Scalinate in salita e in discesa indicano il percorso per arrivare in uno dei quattro quartieri che compongono la città dei mosaici. Ma il "Monte" è il più nobile. Avvolto in vicoli larghi poco più di un metro, è la culla del vernacolo piazzese.
Il dialetto, che oggi rimane intatto nella codificazione grammaticale dell'800 di Remigio Roccella, è stato il primo nella storia ad essere codificato a tutti gli effetti lingua madre, idioma di espressione incontaminata e testimone di storia ed eventi.
Piazza Armerina, isola senza tempo, è lo scrigno di lontane civiltà che gridano, ancora oggi, il loro messaggio; che ripudiano la modernità; che perpetuano la storia. E là dove alla corte di Federico II, chi poetava erano i "dotti"; ora uomini e donne ne proseguono le virtù raccontando di un amore quotidiano, per il lavoro, la natura, la terra. E Pino Testa ne è veterano. Alla soglia dei 90 anni, ha segnato la propria esistenza con questi valori, giorno dopo giorno.
Pino Testa e Filippo Rausa
Nato nel 1927, il poeta racconta di essere appena un bambino quando aiuta il nonno nei lavori di bottega. È lì che ha occasione di ascoltare la parlata dei contadini, le storie della quotidianità, le tradizioni, gli umori di un popolo espressi nel dialetto del luogo. Questa esperienza di vita gli rende familiare la musicalità del lessico e della lingua, «a parràda à v'ddanesca», modo di comunicazione quasi esclusivo dell'umile gente.
Ma chi è Pino Testa nella vita privata? Padre di 4 figli e nonno di 5 nipoti, è un marito devoto alla moglie invalida. Vive gli anni della pensione come un meritato riposo. È solito passare le mattine al circolo culturale di Piazza. Legge i giornali, scambia chiacchiere con i volti di sempre e cerca di cogliere le frasi del quotidiano per averne ispirazione poetica. «Parecchie espressioni - racconta - sono sempre riaffiorate alla mia mente spontaneamente. Erano loro che mi chiedevano di diventare poesia. Poi, con il tempo e con qualche studio in più, ho elaborato tre diverse poetiche: la satira politica, di costume e dell'anima».
- Professore Testa, il caos politico e il suo beffeggiamento sono temi più che mai attuali. Da che parte sta la sua satira?
«Sono un uomo libero, oggi, a 87 anni e lo ero più che mai ieri a 50, 40, 30 e 20 anni. Gli anziani dicevano che "in politica di tutto si parla fuorché di Cristo". Io mi limito a "scanzonare" chi riveste ruoli importanti. Andreotti diceva "il potere logora chi non ce l'ha", io ritengo che l'uomo arrivato a un traguardo importante difficilmente resta sé stesso. Si annebbia la mente e i propositi iniziali, anche se buoni, spesso affogano nel proprio tornaconto. E questa è la storia di sempre…».
- Facciamo un passo indietro. Le sue poesie sono tutte scritte in dialetto gallo-italico, per anni attribuito al parlare villano. Come mai ha scelto di "elogiare" una parlata ritenuta dagli stessi abitanti di Piazza poco raffinata?
«La storia racconta di popoli che sono morti in nome di un'identità. Accanto a questi si
contrappongono, per antitesi, coloro che, per darsi un contegno, si vergognano del proprio dialetto. Lo evitano e lo disprezzano. Io, della vergogna, ne ho fatto virtù. Il mio messaggio è rivolto alle nuove generazioni, affinché non perdano l'identità originaria. Ma i giovani sono ormai troppo lontani da tutto ciò. Ascoltano, a volte si compiacciono, ma non tramandano. Spero che almeno i miei libri e la mia arte manterranno vivi i miei ricordi nel tempo».
- E così, a gambe accavallate e con il basco da pittore in testa, prende in mano un suo libro, ne sfoglia velocemente le pagine e inizia a recitare una poesia, non senza aver chiesto prima il permesso. Si intitola "A rr' mpatriàda" (la rimpatriata) e racconta di un ragazzo che, vissuto per qualche tempo al Nord, torna a Piazza Armerina e si presenta al padrino con aria superiore, evoluta e quasi schifata.
«"Cu doi giorni ch' n' scisti/ voi parrè cù "Liolà"! / Tu a testa t' futtisti/ sì vddàngh' e baccalà". Mentre legge, seduto sulla poltrona del circolo culturale, improvvisa un simpatico gesticolare. Poi si ferma e prosegue: «Tento di tradurre il vernacolo in italiano, ma anticipo che non rende allo stesso modo: "Sei stato via per poco tempo/ e ti atteggi come chi non ha mai vissuto a Piazza Armerina/ Ti sei bevuto il cervello/ sei più villano del dialetto e pure stupido».
- Il peso degli anni non ha appannato il suo entusiasmo e il suo sentire. È così che nasce la poesia dell'anima?
«Quella è altra cosa. Nasce dal bisogno di dimenticare. Il dolore e gli acciacchi. I torti subiti e gli amori perduti. Ma soprattutto gli anni che non tornano più e le persone che il tempo, inevitabilmente, porta via con sé. Per sempre. Mi dovete perdonare l'emozione, ma non riesco mai a trattenere le lacrime quando mi spoglio di ogni costrutto. La vita frenetica e eccessivamente moderna nasconde e abissa i sentimenti. Ma soprattutto non permette di godere e comprendere i veri valori della vita. "Vuléss' dorm'…ancora/ ni bràzzi d'm'matri/ e u fiàt d'm'patri, / ch'u témp'm'rrubà. Pr'và d'sti rr'cchézzi, / m'sent'n' òm'pers'/ pr'chìnan'trv' u vers'/ ch' u témp' m'rrubbà"».
E dopo aver recitato a occhi socchiusi la poesia dedicata alla famiglia, il suo palcoscenico si riempie di silenzio. Di riflessione e di dolore. Spogliandosi dei panni di poeta, Testa saluta così l'anno che sta passando: "Senza la memoria non ci può essere progresso».

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